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Le cose ti saltano addosso • Estratto da un’intervista a Walter Siti

Le cose ti saltano addosso • Estratto da un’intervista a Walter Siti

Ryo Takemasa

Riportiamo un estratto di un’intervista a Walter Siti, da “Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti” (Minimum fax, 2019), in cui lo scrittore parla dell’idea di letteratura.


Ho l’impressione che più che una questione di singole personalità o di maestri sia successo qualcosa di più fondamentale. È proprio la teoria della letteratura, cioè che cos’è la letteratura, cosa può fare la letteratura, è tutto questo che di colpo non è importato più a nessuno. È come se a un certo punto si fosse dato per scontato che la letteratura o è un genere di intrattenimento, e quindi come tale va trattato, oppure è un genere di impegno sociale, per cui un libro contro la mafia va benissimo, un romanzo sui migranti è perfetto.

Anche quello che adesso passa molte volte sotto il nome di impegno si può intendere come puro intrattenimento: si dà alla gente qualcosa che può leggere per due ore sentendosi migliore alla fine della lettura. È come se avessero tutti in qualche modo svalutato la letteratura.

Ho l’impressione che pensando alla letteratura noi avessimo in mente qualcosa di grande, che ti fa scoprire ciò che non sai di sapere o che nascondi anche a te stesso; adesso è sempre più difficile per i giovani pensare alla letteratura come qualcosa di grande, legato alla densità e alla potenza della forma. Ogni tanto mi viene da dire che certi errori morali o politici che circolano nella comunicazione attuale dipendono dal fatto che la letteratura è troppo tra­scurata e rimossa. Quando rimuovi le cose poi ti saltano addos­so come un sintomo. Se dimentichi troppo a lungo come è fatta la letteratura, poi lei ti morde nel momento in cui te l’aspetti di meno, torna come fantasma.

Per esempio i giornalisti fanno fun­zionare nei loro articoli un meccanismo di suggestione per con­tatto che è quello classico della letteratura: se due cose sono vici­ne allora vuol dire che sono simili. Le metafore o la rima funzio­nano in questo modo.

Oppure il meccanismo di identificazione letteraria: mi sento Pierre Bezuchov di Guerra e pace perché alcu­ni miei caratteri sono simili ai suoi. Il fatto che i giornalisti usino questi meccanismi è un problema, perché creano nella realtà collegamenti emotivi e non razionali.

Credo che ormai siano mol­ti anni che nessuno prende più la letteratura come una forma di conoscenza con delle leggi proprie, come quella che Francesco Orlando, riprendendo Matte Bianco, chiamava bilogica, cioè una logica diversa da quella aristotelica. Ho l’impressione che ormai la gente pensi alla letteratura solo come svago o come impegno: lo spessore formale non interessa più a nessuno. È questo secon­do me che ha fatto morire la critica militante seria. Quella che per esempio potrebbe dire di tutta questa ondata di letteratura sulla mafia o sui migranti cosa è venuto fuori di buono e cosa no.

In Bontà, il libro che è da poco uscito per Einaudi Stile Libero, il protagonista è un editor e gli passano sotto gli occhi tantissimi manoscritti. Invece di descrivere l’editor che dava giudizi Sui manoscritti mi piaceva l’idea di scrivere proprio alcune delle pagine che legge.

Ho provato a fare tre pastiche di scrittori immaginari: ce n’è uno di tipo etnico, sai di quei libri dove a un certo punto si passa al dialetto, tutti pieni di nostalgia per le cose della non­na, gli agnolotti, il pane. L’altro è la storia di un migrante che ha attraversato il mare e il terzo è sulla ’ndrangheta a Sesto San Giovanni. Mi sono letto i vari autori di genere per assorbire cer­ti elementi di quello stile parola-punto-parola-punto-parola, op­pure, che ne so, una metafora tesissima a cui segue una frase di tipo burocratico come «l’urlo sbranò il pomeriggio nella misura in cui».

Stavo cercando di impratichirmi con questo stile anche leggendo L’Arminuta della Di Pietrantonio, vincitore al Campiel­lo. Pensavo fosse un libro del genere, ma a pagina dieci ho det­to no cazzo, questa sa scrivere. È una cosa immediata: ti accor­gi che di colpo le parole hanno i muscoli, che sono piene, che ti chiedono delle cose, che hanno un’aria intorno che le fa respi­rare; mentre di là tutto resta piatto e al limite ti fa un po’ ridere. Non so questo tipo di orecchio a quanti giovani ormai sia rima­sto. Non vedo più da nessuna parte qualcuno che spieghi questa differenza alla gente che legge.

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